Questo breve contributo non vuole ricostruire la concezione dei vari filosofi sull’amicizia, ma sollevare alcune questioniche emergono nella storia del pensiero e nell’esperienza quotidiana di relazione con gli altri che ci troviamo a vivere.
L’amicizia verso se stessi
Il punto di partenza della nostra riflessione è Aristotele, che dedica due libri (VIII e IX) della sua opera Etica Nicomacheaal tema dell’amicizia. Egli dopo averla divisa in vari tipi – li consideriamo in seguito – affronta la questione del rapporto tra l’amore a sé e quello all’amico, stabilendo un nesso importante tra i due (Etica Nicomachea, Laterza, 2014, pp. 369-371). Egli si riferisce in particolare all’uomo “eccellente”, cioè a colui che opera per la realizzazione della parte razionale presente in sé, e dice che è in “accordo con se stesso”. Per tale tipo di uomo l’esistere è un bene, gli è piacevole stare con se stesso. Ma poiché secondo Aristotele l’amico è un altro se stesso, l’uomo si rapporta all’amico come si rapporta a se stesso (cfr. p. 371). Chi è malvagio non amerà sé, perché non troverà nulla di amabile nel proprio essere ed agire. Esso vive una continua divisione nella propria anima. “I cattivi cercano con chi passare la giornata e sfuggono se stessi” (p. 373), in loro si produce “un eccesso di infelicità”, che rende impossibili rapporti positivi con gli altri. Inoltre l’uomo che opera per il bene secondo Aristotele è in un certo senso egoista, perché cercando ciò che di più alto vi sia, sceglie la vita migliore; però proprio questo gli dà la possibilità di volere oltre al bene proprio, anche quello dell’amico, talvolta con un sacrificio personale (p. 387).
Che il rapporto con gli altri dipenda in forte misura da quello che abbiamo con noi stessi, è sottolineato in un contesto storico e di pensiero molto diverso da quello di Aristotele, anche da filosofi più vicini a noi nel tempo. S.Kierkegaard (XIX secolo), ad esempio, analizzando il fenomeno della disperazione, sostiene che essa derivi dalla non accettazione del proprio io. Egli fa l’esempio di una ragazza che si dispera per amore; sembra che soffra perché non è più ricambiata e che l’oggetto della disperazione sia l’amato, ma in realtà “essa si dispera per se stessa. Questo suo io dal quale se fosse diventata l’amata di “lui”, si sarebbe liberata nel modo più piacevole o che avrebbe perso, quest’io è per lei un tormento ora che dev’essere un io senza di ‘lui’” (Il problema della fede, Laterza, 1986, p. 175). Secondo Kierkegaard quindi questa ragazza trova insopportabile il proprio io, vorrebbe quasi sbarazzarsene, ma non lo può fare. Come uscire dalla disperazione?
Anche H. Arendt, vissuta nel XX secolo, ha affrontato il tema della capacità che ha l’uomo, attraverso il pensiero, di rapportarsi a se stesso; richiamandosi a Socrate sottolinea che attraverso la coscienza di sé l’uomo diventa “due in uno”, in quanto è un io che pensa sé. In tal modo l’io tiene per così dire compagnia a sé stesso e può vivere un’amicizia con sé: “L’io che è in ognuno di noi deve prendersi cura di non far nulla che renda impossibile ai due-in-uno di essere amici e vivere in armonia” (La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2004). Chi evita di pensare rifiuta la compagnia di sé e tende a non riflettere sulle proprie azioni, così da non sentire la necessità di rendere conto del proprio operato, anche se criminoso. Le riflessioni della Arendt sono legate alla comprensione delle motivazioni che hanno portato uomini, come il nazista Eichmann, a compiere il male in assenza di moventi “cattivi” (Cfr. La banalità del male), ma hanno una portata universale. Ma come acquisire la capacità di “pensare” nel senso inteso dalla Arendt?
I vari tipi di amicizia
Veniamo quindi più direttamente alla relazione con gli altri. Per comprendere i vari modi in cui essa si manifesta possiamo ritornare ad Aristotele, che distingue tre tipi di amicizia, rispettivamente fondati sul buono, sul piacevolee sull’utile(Etica Nicomacheacit., p. 313). Coloro che vivono gli ultimi due tipi di amicizia non amano l’altro “per quello che è”, ma solo perché possono trarre un piacere o un vantaggio da lui. Questo tipo di relazioni non è duraturo, perché se la situazione muta, e la compagnia dell’altro cessa di essere piacevole o utile, il legame si rompe, dato che non aveva altro fondamento. Secondo Aristotele i giovani più facilmente cercano nell’amicizia il piacere, poiché essi “vivono seguendo le proprie passioni” e “perseguono non solo il loro proprio piacere, ma il loro piacere immediato” (p. 317). Al cambiare dell’età anche le cose piacevoli via via mutano; quindi “i giovani diventano amici in poco tempo e in poco tempo rompono l’amicizia” (p. 317).
A partire da queste riflessioni si comprende come, per Aristotele, l’amicizia in senso forte, quella “perfetta”, sia quella fondata sul bene, cioè quella “tra buoni” e “simili per virtù”. Questi “desiderano allo stesso modo reciprocamente l’uno il bene dell’altro” (p. 319); non è accidentale il loro legame, come nei tipi prima citati di amicizia; il rapporto rimane stabile e saldo poiché i buoni sono virtuosi, e la virtù è uno stato duraturo. Per Aristotele infatti le varie virtùsono acquisite dall’uomo attraverso la realizzazione ripetuta e consapevole di atti buoni, che lo “formano” e gli permettono di vivere secondo la propria natura razionale. Ad esempio, la virtù del coraggio non è appresa attraverso un insegnamento teorico; per diventare coraggiosi è necessario compiere ripetutamente atti coraggiosi (p. 48). Ciò vale anche per l’amicizia, che è considerata da Aristotele una virtù; essa quindi non è una passione, “si ricambia l’amicizia sulla base di una scelta, che deriva da uno stato abituale” (p. 48). È importante quindi sottolineare che per questo filosofo l’amicizia non è innanzitutto un sentimento, ma è qualcosa di “voluto”, in seguito per così dire ad un “giudizio” di stima sull’altro. Al tempo stesso però Aristotele giustifica anche la dimensione di “piacevolezza” dell’amicizia. I veri amici, in quanto buoni, sono anche piacevoli ed utili gli uni agli altri. Infatti “il bene in assoluto è anche piacevole in assoluto” (p. 319). Per questo i veri amici desiderano vivere insieme. L’amicizia perfetta, per Aristotele, è però rara e ha bisogno di “tempo e consuetudine”, “il desiderio d’amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no” (p. 321).
Da quanto esposto finora emerge anche che l’amicizia perfetta richiede un rapporto di reciprocità, in un certo senso di parità, poiché è possibile solo tra virtuosi; però, per Aristotele, se indubbiamente si prova piacere nell’essere amati per noi stessi, un rapporto vero consiste più nell’amare che nell’essere amati; egli accenna alla possibilità che questo avvenga senza reciprocità, portando l’esempio dell’amore donato dalle madri ai figli, che può essere senza contraccambio (p. 333).
Amicizia e diversità
Proprio sul tema della reciprocità e della “eguaglianza” tra amici si sono concentrati criticamente alcuni filosofi contemporanei, mettendo in luce che la concezione “classica” ispirata ad Aristotele lascia poco spazio al riconoscimento delle “differenze”, quasi che la relazione porti ad una sorta di appiattimento delle rispettive diversità. Quindi non la parità, ma la “dissimmetria” è necessaria secondo Derrida: «La dissimmetria infinita è la condizione di un’amicizia senza condizione, che a sua volta è l’unica forma di relazione perché senza alcuna comunanza. Tutto il resto è scambio e debito» (Politiche dell’amicizia, citato in U. Curi, Corriere della Sera, La Lettura, 19 gennaio 2014). Quindi si potrebbe dire che l’atteggiamento veramente disinteressato, che Aristotele sembra attribuire unicamente al rapporto tra virtuosi, emergerebbe solo se si accoglie una diversità irriducibile.
Altre interessanti riflessioni emergenti nel pensiero contemporaneo insistono sulla necessità del “distacco”, della “distanza” che si deve mantenere dall’amico, perché il rapporto sia vero. Scrive S. Weil: “L’amicizia risiede soltanto dove la distanza venga mantenuta e rispettata. Quando Cristo diceva ai suoi apostoli di amarsi l’un l’altro, non alludeva ad una forma di attaccamento. Gli apostoli erano legati da una comunanza di pensieri, di vita, di abitudini, Cristo dice loro di trasformare quei legami in pura amicizia, per far sì che le interazioni fra gli interessati non si tramutassero in attaccamenti impuri o in odio” (Attesa di Dio, Milano 2008, p. 162).
È possibile tenere insieme dissimmetria, distanza e amore?
Per rispondere a questa domanda mi riferisco a due episodi narrati da S. Agostino(vissuto tra quarto e quinto secolo d.C.), nell’operaConfessioni; essi riguardano rispettivamente la morte di un amico e della madre. La perdita del primo, quando Agostino era nella tarda adolescenza, dopo aver abbandonato la fede cristiana, lo getta nell’angoscia; “ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia città, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformato in uno strazio immane…. Io stesso ero diventato per me un grosso problema” (Confessioni, 4, 4. 9). Sottolinea quindi Agostino che all’origine di tale angoscia vi era il fatto che aveva amato una creatura mortale “come se fosse immortale” (4, 8.13) e questo, anche se l’amico avesse continuato a vivere, sarebbe stato comunque causa di infelicità. Qual è allora l’atteggiamento vero secondo Agostino, che scrive le Confessionidopo essersi riconvertito al Cristianesimo? “Felice chi ama te, l’amico in te, il nemico per te. L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in chi non è mai perduto. E chi è costui, se non il Dio nostro?” (4, 9.14). La consapevolezza del nostro essere creature limitate e mortali ci induce quindi anon trattare l’altro come un nostro possessoo come colui che ci può dare la felicità, o che noi possiamo rendere felici, ma come un dono di Dio, di cui godere in Dio. In tal modo l’amicizia prende la dimensione dell’eternità: anche se vive nel tempo, non finisce nel tempo.
Agostino narra poi nelle Confessionianche del doloroso episodio della morte della madre, a cui era profondamente legato e che tanto aveva pregato perché lui tornasse alla fede cristiana. Dopo la conversione del figlio, il rapporto si era ancora approfondito, in una comunione straordinaria con Dio. Agostino racconta di aver sofferto moltissimo, ma di non essersi “disperato” come nel caso del primo lutto.
Riconoscendo quindi che la vera felicità, sua e della persona amata, è Dio, Agostino ci ha dato un esempio vissuto di come sia possibile tenere insieme amore e “distanza”, vicinanza intima e distacco.
“Vi ho chiamato amici”
Ma come ha potuto Agostino vivere questa esperienza? Attraverso l’incontro con un Dio fatto carne, che gli si è reso vicino e familiare anche grazie all’amicizia e all’affetto di altri uomini, che cercavano come Agostino la Verità o si erano già “arresi” ad Essa.
La paradossalità del Cristianesimo, di un Dio che è diventato uomo, è ben messa in luce da Kierkegaard: la distanza incolmabile tra uomo e Dio, generata dal peccato originale, è stata vinta, perché Dio stesso è diventato uomo. A mio avviso è importante sottolineare che non esiste, utilizzando il termine di Derrida, nessuna “dissimmetria” più profonda di questa, esistente tra uomo e Dio; ma essa rimane e nello stesso tempo è superata. “Un io di fronte a Cristo è un io potenziato per una immensa concessione da parte di Dio, potenziato per l’importanza immensa che gli viene data dal fatto che Dio anche per amore di quest’io si fece partorire, diventò uomo, soffrì e morì” (Il problema della fede, cit., p. 156). Dire sì a questo amore nella propria esistenza è per Kierkegaard la via di salvezza alla disperazione, cioè alla non accettazione del proprio io.
Potremmo quindi dire che nella prospettiva cristiana l’iniziativa dell’amore, dell’“amicizia”, viene da Dio, ed è rivolta a tutti, anche e soprattutto ai “non virtuosi”; solo se l’uomo ha fatto l’esperienza concreta di essere amatopuò amare sé e gli altri a sua volta. Forse anche da questo nasce la capacità umana di pensiero come dialogo amichevole con sé, dalla certezza di essere amati.
Il superamento dell’estraneità tra uomo e uomo, la possibilità di vedere nell’amico ed in generale nel prossimo, “un altro altro me stesso” pur nella “positiva distanza” che ci separa, sono dati da questa iniziativa d’Amore.
Contributo Filosofico – di Rossella Spinaci
BIBLIOGRAFIA
- AGOSTINO, Le Confessioni, trad. e note di C. CARENA, Città Nuova Editrice, Roma 1982
- ARENDT, La vita della mente, a cura di A. DAL LAGO, trad. di G. ZANETTI, Il Mulino, Bologna 200
- ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad. it., introd. e note di C. Natali, Bari, Laterza, 2014
- CURI, Lo insegna Platone: l’amicizia si dimostra e non si dichiara, Corrieredella Sera, La Lettura, 19 gennaio 2014
- DERRIDA, Politiche dell’amicizia, trad. di G. CHIURAZZI, R. Cortina, Milano 1995
- KIERKEGAARD, Il problema della fede, antologia a cura di C. FABRO, Brescia, Laterza, 1986
- WEIL, Attesa di Dio, a cura di M. C. SALA, Adelphi, Milano 2008
- P. TERRAVECCHIA, LETTURE/ Da Nietzsche al vangelo di Luca: tre domande sull’amicizia. Aveva ragione Aristotele a dire: “O miei amici, non c’è nessun amico”? Secondo PAOLO TERRAVECCHIA, www.IlSussidiario.net, 30 AGOSTO 2013 – AGG. 05 SETTEMBRE 2013.